Close Questo sito utilizza cookie. Può leggere come li usiamo nella nostra Privacy Policy.

I luoghi della mia memoria
 
Novembre 1966, alluvione di Firenze

Zio Nello,
l'uomo degli "angeli del fango"

All'epoca avevo12 anni e abitavo a Roma.
Firenze per me era solo la bella città dove viveva mio zio Nello con la sua famiglia e dove per caso era nata mia nonna. C'ero stata più di una volta a trovarlo da ragazzina e ricordavo la sua casa sul lungarno, il cui portone si affacciava su un giardino dove con i mei cugini correvamo su un monopattino sbilenco. Sapevo che mio zio lavorava nella grande costruzione accanto, un posto dove si conservano i libri, la Biblioteca Nazionale. Ne era poi diventato il direttore e si era trasferito a vivere al Galluzzo, poco lontano da piazzale Michelangelo. Ai primi di novembre del '66 mia madre portò me e le mie sorelle a Firenze a trovare zio, zia e cugini. Pioveva, pioveva tanto che non potemmo andare a visitare la città.
Non ricordo quando arrivò la telefonata, chi la fece e chi rispose al telefono. Mio zio, Emanuele Casamassima, direttore della Biblioteca Nazionale di Firenze, rimase per un attimo immobile nel corridoio dandosi dei colpetti sulla testa col palmo della mano destra, così come faceva sempre quando era soprappensiero. Poi scomparve. Non ho mai saputo come fosse riuscito a raggiungere la Biblioteca. L'Arno aveva già rotto gli argini e cominciato a invadere la città infiltrandosi subito nei sottereranei della Biblioeteca dove erano conservati gli incunaboli più antichi e preziosi. I miei ricordi sono filtrati dai racconti di mia madre che poi, dopo anni, mi raccontò sorridendo con affettuosa e complice ironia, che zio Nello, nella sua dimensione di romantico medioevalista, le aveva detto: "Ora seguiranno i saccheggi, il colera e la carestia".
Le notizie che ci arrivavano da oltrarno, a noi solo sfiorati dalle inondazioni, erano poche e sporadiche.Con i cugini raggiungemmo sotto una pioggia insistente piazzale Michelangelo dove assistemmo alla piena dell'Arno. C'era gente sui tetti e molti come noi affacciati alla balaustra, l'ombrello nero aperto, lo sguardo angosciato, l'atteggiamento dignitoso. Non una lacrima, se non nascosta, ho visto in quelle ore mentre l'acqua sembrava quasi raggiungerci portando con sè mobili, auto, carogne d'animali. Proprio di fronte a noi, che eravamo poco più che bambini e in parte divertiti e affascinati da quella straordinaria avventura, la Biblioteca Nazionale era nascosta per metà dal fiume limaccioso e minaccioso. Non ci chiedemmo dove fosse zio Nello, sapevamo che era lì da qualche parte già al lavoro in attesa che il peggio passasse. Ma il peggio doveva ancora venire. I danni alla città e alle opere d'arte, con il rifluire delle acque, erano incalcolabili. Il mondo intero guardava con ansia a Firenze in ginocchio e al suo patrimonio inestimabile rovinato dal nero fango del fiume, una coltre putrida che ricopriva la città. Nei giorni successivi rimanemmo in casa dove tutto era tornato a funzionare e dalla TV ricevemmo le notizie che aspettavamo. Si parlava di una grande mobilitazione che vedeva in prima linea giovani di tutto il mondo arrivare a Firenze per dare una mano e salvare quel patrimonio che apparteneva all'umanità. Zio Nello aveva aperto le porte della Biblioteca ai giovani che accorrevano in aiuto e organizzato un servizio di primo intervento di recupero dei libri danneggiati dall'acqua e dal fango che poi sarebbe diventato un vero e proprio laboratorio di restauro del libro all'avanguardia nel mondo.
Seguimmo anche le prime polemiche, l'arrivo dei politici, e i fischi di quei ragazzi stanchi e sporchi di fango al Presidente Saragat. Sapevamo già cosa avrebbe fatto zio Nello, e infatti a Saragat disse semplicemente: "Presidente, ci lasci lavorare".
Qualcuno ha detto che questo fu l'anticipo delle proteste politiche che sfociarono nel 1968.

Vai al sito dedicato al trentennale dell'alluvione
Torna alla Home

2 novembre 1975
Idroscalo di Ostia

La morte di Pasolini

Nel 1975 avevo 21 anni. Ero diventata maggiorenne un poco prima di compierli perchè nel frattempo era passata la legge sui diciottenni. Studiavo filosofia all'Università ma ancora andavo spesso a Ostia dove fino a due anni prima avevo frequentato il liceo scientifico e dove mantenevo le mie amicizie. Ora quel periodo, che pure doveva rappresentare per me un momento di spensierata gioventù, lo ricordo come grigio e angoscioso benchè ancora non si fosse entrati negli "anni di piombo". Noi post sessantottini eravamo sensibili a ciò che ci accadeva intorno e malgrado non fossimo abituati alle ribellioni e alle battaglie dei nostri fratelli maggiori, ci scaldavamo e soffrivamo con emotività di fronte alle ingiustizie e agli eventi che ci accadevano intorno.
A casa mia madre teneva da sempre sul suo comodino un libro che io, fin da bambina, le ho visto tra le mani: era una delle prime edizioni di "Una vita violenta" di Pier Paolo Pasolini. Mi raccontò presto la storia di Tommaso, quella dei quartieri degradati di Roma e di quel popolo candido che ci viveva. Prestissimo mi portò a vedere "Accattone". Non capii molto di quella storia così lontana dalla mia e certamente non afferrai il senso di molte cose. Ma mi rimase impressa la faccia di Franco Citti, quel suo camminare tra le baracche del borghetto e sono cresciuta con l'idea che quel mondo non nascondesse nulla di cattivo, così poetico nella finzione quanto nella realtà. La cattiveria, casomai, si annidava nei salotti pariolini che mia madre aveva ripudiato.
Per me, quindi, Pasolini era uno di casa e quei suoi personaggi e quel mondo con cui poi sono entrata in contatto, facevano parte di me, del mio patrimonio indelebile di conoscenza. Non è escluso che abbia anche influito sulle mie scelte e sul mio modo di essere.
Col passare degli anni ci allontanammo però dal secondo Pasolini e dalla sua denuncia estrema contro il potere, che ci apparve esasperata e con un valore così profondamente profetico da essere troppo pesante da condividere senza riserve. Restava comunque come una stella polare da cui non si poteva prescindere, non fosse altro che per dissentire, ma sempre col dubbio che non ci fosse nulla che si potesse dire di più o di diverso.
La mattina del 2 novembre 1975 era domenica. Mi alzai tardi con un senso di nausea e di angoscia. Il cielo era coperto da nubi sciroccali, quelle che a Roma portano la sabbia del deserto africano e ricoprono di polvere marroncina le strade e i balconi. Rimasi a ciondolare fino all'ora del pranzo, quasi attendendo che quelle nubi passassero e con esse il malessere che ogni volta portano con sè. Il telegiornale dell'una (o una e mezza, non ricordo), ci diede la notizia. Pasolini era morto, martoriato e ucciso, a pochi chilometri di distanza da casa mia. Seguimmo le immagini che la TV ci trasmetteva riconoscendo luoghi a noi familiari. Piangemmo anche, senza nascondere le lacrime, e in fretta mangiammo per chiuderci nelle nostre stanze. Dal quel giorno mi chiedo se la mia vita sarebbe stata diversa se lui non fosse morto.
Vai a Pagine corsare
Torna alla home

La grande scuola di giornalismo
di un mitico quotidiano

Come già detto, negli anni ’70 andavo al liceo ad Ostia e sapevo che al pontile c’era la locale redazione di Paese Sera, con Sergio Spirito giornalista vip del litorale, per il quale nutrivo naturalmente una certa timida ammirazione, come per altre firme del giornale che mio padre comprava ogni giorno. Mi piacevano soprattutto gli articoli di Emilio Radice che leggevo con interesse, studiandomi lo stile che di solito aveva un respiro da reportage, più che da cronaca. Come molti, mi sarebbe piaciuto fare la giornalista e mentre studiavo filosofia all’Università, m’inventai un giornaletto mensile che si occupava dei problemi della zona di Ostia. Si chiamava “Il Maestrale” e  direttore responsabile ne divenne, non ricordo come,  Franco Pasqualetti, giornalista di Paese Sera. Quando il giornale riaprì i battenti con la gestione della Cooperativa, qualcuno decise che poteva essere un’operazione utile riaprire anche  la redazione di Ostia. Fu quindi messo insieme un gruppo di giovani  ”scarpinatori”, armati di passione ed energia, ma ancora a digiuno delle più elementari basi del giornalismo di cronaca. Se ne accorse subito il direttore Claudio Fracassi, quando ci sottopose ad un piccolo esame di verifica: i nostri articoletti sembravano i verbali dei carabinieri...
Comunque, il miracolo si compì: trovata la sede (una stanza in un appartamento che condividevamo con uno studio di architetti comunisti), a coltivare il vivaio lidense fu inviato un grande della cronaca romana: Walter Buzzoli, mentre a Roma sorvegliava la situazione Sandro Mazzerioli, capocronista. Facevano parte del gruppo, oltre a me: Patrizia Gaeta, Carla Zironi, Claudio Razeto, Marco Gasparini con il fotografo Mino Ippoliti. Fu un periodo (dal 1984 alla seconda chiusura del giornale nell’89) di grande impegno e poco guadagno. Riuscivano a riempire  due pagine di cronaca locale al giorno e si lavorava anche la domenica per seguire, oltre alla cronaca,   le partite di calcio delle formazioni locali. Ad illustrare le azioni e i gol,  i disegni a china di Marco e di un suo amico, vista l’impossibilità d’inviare foto. Fu stranamente anche un periodo in cui i "fattacci" a Ostia si susseguirono ad un ritmo impressionante, cosa che permise a Buzzoli di arricchire il nostro tirocinio con l'esperienza sul campo. In realtà, ripensandoci, potrebbe anche essere che alcune delle vicende che riempirono le pagine della cronaca di Ostia in quei mesi, non fossero poi molto da "cronaca nera", però ogni avvenimento, anche insignificante ci diede modo d'imparare come raccontarlo.
Nei giorni feriali, quando  Buzzoli tornò definitivamente a Roma e fummo lasciati allo stato brado,  per l’invio delle foto avevamo trovato il seguente sistema: uno di noi andava alla stazione Lido Centro, individuava un passeggero al quale affidare  il rullino che poi doveva essere consegnato al fattorino inviato da Mazzerioli alla Stazione di Piramide. Non sempre però la “consegna” aveva successo e qualche volta gli articoli uscivano con foto generiche. Non ho mai saputo come il fattorino e il passeggero si riconoscessero.
Nella nostra redazione ad un certo punto arrivò anche il fax. Ma all’epoca era un enorme cubo piuttosto rumoroso quando si metteva in funzione e non mancarono le proteste dei vicini. A Roma, nel frattempo, sovrintendevano al nostro lavoro anche Raffaele Gambari, Fabio Albertelli, Franco Rossi., Antonio Di Pierro. Da loro, oltre che da Buzzoli, io ho appreso la grande lezione della scuola di Paese Sera: il rigore nella ricerca delle notizie e il rispetto per il lettore che dovevano venire sempre prima delle proprie convinzioni ed idee. Che angoscia quando si veniva mandati a prendere informazioni su un fattaccio di cronaca nera: al ritorno Buzzoli ( o Mazzerioli) sottoponeva il già scioccato neocronista a una serie di domande a raffica e se non si sapeva rispondere a tutte erano guai!
Con il passare del tempo ci eravamo ormai radicati sul territorio ed avevamo anche dei “diffusori” del giornale, compagni e amici che ci davano una mano, soprattutto alle case popolari di Nuova Ostia e che ci passavano  dritte e notizie di prima mano. L’apertura della redazione del Messaggero, che aveva più mezzi di noi e cronisti parecchio “scafati”, ci creò non pochi  problemi, anche se andammo comunque avanti fino alla chiusura del giornale nell’89. Il mio incubo quotidiano, poiché nel frattempo ero stata nominata coordinatrice della redazione, era il famigerato “buco” della notizia, e ogni mattina, la lettura del Messaggero era una vera e propria tortura. Riuscivamo a sostenere la concorrenza con  fatica.   Nel ’91, all’ennesimo riavvio delle pubblicazioni, fui  assunta come redattore (ero diventata nel frattempo giornalista professionista) e quindi dimenticai Ostia per lavorare a Roma. Ero all’Attualità con Antonio Chizzoniti, Mario Papetti, Paola Pittei.   Ma, per quanto mi riguarda, non poteva durare…Fui rispedita nel 1992  da Alessandro Cardulli  a dirigere la rediviva redazione Ostia-Litorale  che aveva diversi collaboratori, tra cui Alessandra Zavatta, Marco D’Amico, Roberto Filibeck, Fabio Di Chio.  A febbraio ’93 il direttore Arnaldo Agostini mi propose di andare a dirigere la redazione di Rieti. Rinunciai perché qualche mese dopo doveva nascere mio figlio Federico. Quel che segue, non riguarda più Paese Sera. La mia esperienza col giornale che ha  condizionato gran parte della mia vita, si chiuse poco prima della sua chiusura definitiva.