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Questo mio racconto ha partecipato al Concorso "Giallo Wave" nell'ambito di
Arezzo Wave Love Festival 2004

L'incipit è di Andrea Camilleri

 

 

LA VALIGETTA

 

C'impiegò più di mezz'ora a trovare la strada dove c'era la villetta a un piano di Giulio. La sera avanti aveva detto all'amico che l'indomani mattina sarebbe partito in macchina per Genova.

"Oh che bello!" - aveva esclamato Giulio - "Quindi passi per Pineta Marittima?"

"Beh, dovrei fare una deviazione".

"Una cosa da niente. L'anno scorso ho comprato una casetta a Pineta Marittima, lo sai, ci siamo stati quest'estate e io, ripartendo, mi sono scordato lì una valigetta. Mia moglie mi rompe l'anima, dice che le serve, ma io non ho ancora trovato il tempo... Fammi un favore, vacci tu. Ti dò le chiavi, ti spiego tutto".

Più di mezz'ora a girare per quel paesucolo che faceva stringere il cuore, abbandonato, forse caduto in coma. Niente di peggio, per l'umore, che un paese di mare durante l'inverno. E finalmente eccola lì, la villa, come gliela aveva descritta Giulio.

Nascosta  da un muro di cinta troppo alto per una casa così bassa, di cui si scorgeva da fuori solo la balaustra della terrazza con un improbabile comignolo affumicato e l’antenna TV, ne riconobbe  il colore: un bianco opaco sporcato dalla pioggia e dalle crepe nell’intonaco che erano una delle preoccupazioni di Giulio: “L’ho comprata per quattro soldi,  dovrei ristrutturarla. D’inverno ci piove dentro e la muffa si mangia tutto quello che ci lasciamo. Ma d’estate ci si sta bene e se c’è da spenderci, meglio per ora pensare al giardino. I pini vanno potati, l’erba va tagliata  e a mia moglie piace curare le piante”.

Si avvicinò al cancello di ferro dipinto di verde cercando le chiavi che gli aveva affidato Giulio. “La serratura è arrugginita, la chiave non gira bene, fai attenzione che non si rompa forzandola troppo”.

Non gli piaceva entrare in quel posto. Giulio non era uno dei suoi migliori amici e l’idea di essere costretto ad irrompere, su sua richiesta, nell’intimità di una famiglia di cui molto si chiacchierava nel vicinato, lo metteva a disagio.

“Non si capisce come campino – le aveva confidato sua moglie riferendo i pettegolezzi delle amiche – non hanno un lavoro fisso, lui sparisce per  settimane intere e lei va un po’ troppo spesso dal parrucchiere. Al figlio hanno già regalato il cellulare che scatta le foto, e fa solo la prima media…”

Lui aveva sorriso con ironia, l’invidia della moglie e delle sue amiche era evidente. Ma dovette riconoscere che Giulio gli trasmetteva, un vago senso di allarme, come se fosse uno che portava solo guai.

Da cosa gli veniva quella sensazione? Giulio aveva il tipo del commercialista, col macchinone munito d’antenna. Aveva sempre tra le dita un mezzo sigaro toscano che sembrava minaccioso quando parlava gesticolando. Il suo sguardo era torvo e teso e le sue pupille nere penetravano il suo interlocutore. Sicuramente era un uomo aggressivo ed arrogante, ma bastava questa impressione per fare di lui un personaggio ambiguo? Ripensò a quella notte di Capodanno quando Giulio tirò fuori una pistola e cominciò a sparare colpi in aria. Aveva bevuto, certo. Ma tutti avevano bevuto e nessun altro  di loro si sarebbe sognato di fare quel gran casino. Le mogli si erano spaventate e avevano chiuso i bambini in una stanza. La sua gli aveva poi intimato di non frequentarlo più.

Ma c’era il biliardo di mezzo e lui amava il biliardo, proprio come Giulio che ne aveva uno enorme nella sala hobby del suoi villone poco lontano da casa loro. Una casa troppo grande e troppo vistosa, ben visibile dalla strada,  con la gran parte delle finestre sempre chiuse. Passando si aveva quasi l’impressione che fosse disabitata, se non  per la Mercedes nera parcheggiata ogni tanto nel vialetto d’accesso.

Una casa ben diversa da quella che ora si nascondeva agli occhi dei passanti dietro il cancello su cui stava armeggiando. Era vero, la chiave girava male nella toppa e lui si guardò intorno per essere sicuro che nessuno lo stesse osservando. Esser preso per un ladro che approfitta di una fredda giornata di pioggia per saccheggiare un villino delle vacanze, era l’ultima delle sue  ambizioni. Neanche un ladro di polli avrebbe tentato di scardinare una delle finestre protette da vecchie persiane con la vernice scrostata,  per arraffare qualche indumento estivo e biancheria umida ripiegata in un vecchio armadio.

Immaginava l’interno: mobili raccogliticci scampati alla discarica, brandine da campo e materassi di gommapiuma, piatti scompagnati, pentole vecchie e annerite. E poi quell’umidore tipico delle case disabitate e silenziose, che trattengono nelle mura il segno delle diverse stagioni.

Una serie di bestemmie servì  a forzare la serratura che finalmente scattò permettendogli di entrare nel giardino. Lo colpì il senso di abbandono. Si era aspettato aiuole curate, piante rigogliose, siepi e fontane. Magari anche una vasca coi pesci rossi.

Invece il giardino era una specie di campo incolto che  mostrava recenti lavori di scavo. La terra in quei punti era stata smossa oppure scaricata sull’erba incolta e poi spianata con un  semplice badile ed ora  formava chiazze di fango quasi  liquido, sicuramente infido e scivoloso.  

Rabbrividì, benché non facesse particolarmente freddo e  avesse smesso di piovere. Ma il pino sotto il quale si era fermato per osservare l’insieme, lasciava cadere ancora gocce fredde che gli scendevano lungo la nuca penetrandogli sotto il colletto della camicia.

Si avviò lungo il selciato che portava alla porta d’ingresso. Che ci avrebbe messo ad aprire la porta, trovare la valigetta, richiudere e andarsene?

Lo prese una strana sensazione d’angoscia. Il cielo grigio si stava incupendo e la notte sembrava arrivare prima del previsto.

Quasi la scena di un delitto, si disse.

“Potrebbe essere anche un mafioso, uno spacciatore di droga, non credi?”, gli aveva chiesto una volta sua moglie cercando di convincerlo a non rifugiarsi nelle serate invernali nella sala hobby di Giulio dove loro, spesso con altri vicini di casa, restavano a bere grappa dopo la partita di carambola. Quasi un rito, un appuntamento tra uomini che aveva come unico scopo quello di cimentarsi  amichevolmente in una sfida virile. Lui di solito vinceva, Giulio non era un gran giocatore e se mai avessero scommesso denaro, forse sarebbe anche riuscito a rovinarlo.

Ma il loro non era un gioco venale.

Malgrado questo più di una volta lui aveva avuto la certezza  che  Giulio non sopportasse comunque di perdere. 

Ripensò a come era iniziata quella frequentazione: scambi di saluti tra vicini, poi una chiacchierata davanti all’edicola per scoprire la passione in comune. Finalmente l’invito nella grande sala sotterranea dove troneggiava il biliardo. Lui non avrebbe saputo resistere, da quando s’era sposato si era dovuto dimenticare dei pomeriggi trascorsi con gli amici intorno al tavolo verde. Ma anche a distanza di anni gli era rimasta l’agilità nelle braccia, e il colpo d’occhio acuto del giocatore semi-professionista che sa come usare la stecca. Giulio ne aveva di bellissime, col manico intarsiato o intagliato, lucide e perfette e lui un poco gliele aveva invidiate. “Questa – gli aveva detto una volta – mi è costata parecchio. Potrei dire quasi quanto la vita di un uomo”.

Era una stecca splendida, con il manico in argento lavorato a sbalzo, leggera ed agile come avesse vita propria. E  lui aveva annuito come per dire che effettivamente per chi ne capiva, era quasi come avere tra le mani una donna.   Ripensò a quella frase di Giulio mentre girava la chiave nella serratura del portoncino della villetta.

Era quasi buio e si chiese se  c’era corrente elettrica. Forse avevano staccato l’interruttore centrale prima di chiudere la casa alla fine delle vacanze. In auto aveva una torcia e decise di andare a prenderla e intanto rimuginava su quelle serate al biliardo di Giulio. Un mafioso, uno spacciatore di droga? Questo pensavano le donne del vicinato, compresa sua moglie. Ma c’era sempre un punto di domanda.

Sì, Giulio era un personaggio un poco ambiguo, sicuramente aggressivo e misterioso. Ma di lui aveva apprezzato l’ospitalità e l’atmosfera di complicità maschile che si respirava nella sua sala hobby. Sapeva che aveva fucili e altre pistole oltre quella usata a Capodanno, ma aveva visto anche il suo porto d’armi. “Mi occupo di questioni finanziarie – aveva raccontato ai suoi amici – e in questo  lavoro bisogna sapersi guardare alle spalle. E poi, in una casa così è sempre meglio essere armati. Che si sappia, a uno che entra qui dentro gli pianto un proiettile nel culo”.  

Che aveva aggiunto, poi?

Ma sì, erano solo chiacchierate amichevoli, le solite cose che si dicono fra uomini un po’ brilli ed eccitati dalla competizione.

“Non sono il tipo che si fa passare la mosca sotto il naso – aveva detto una volta – e non sopporto chi pensa di avere sempre ragione”.

Lo aveva fissato, sì.

Aveva pronunciato quella frase e gli aveva puntato i suoi occhi addosso.

Era stato dopo che lui lo aveva sconfitto per l’ennesima volta?

Ora non ricordava esattamente e in quell’occasione non aveva dato peso alle sue parole. Del resto era normale che fosse lui a vincere, Giulio non sembrava giocare per far punti, ma solo per il piacere di ostentare il suo costoso ed enorme tavolo da  biliardo, la collezione di palle d’avorio e le sue stecche. E poi lui non gli aveva mai fatto pesare le sue sconfitte. Ma erano gli altri però a prendere sempre un po’ in giro Giulio, e talvolta, ripensandoci ora, gli era sembrato che ci fosse chi approfittasse delle  sue vittorie per prendersi delle libertà.

Non trovò la torcia nel portabagagli e imprecando la cercò all’interno dell’auto. Sicuramente  suo figlio ci aveva giocato e l’aveva lasciata sul sedile posteriore. E infatti era lì dietro, nascosta sotto il sedile. L’accese, anche se ancora la debole luce del crepuscolo lasciava intravedere il viottolo d’accesso e in fondo la casa con la porta lasciata accostata.

Gli sembrò quasi di vederla muoversi. Ma era solo l’effetto delle ombre sul legno laccato marrone chiaro. Si fermò per indirizzare bene il cono di luce della torcia verso la porta. Non si era mossa, era esattamente come lui l’aveva lasciata.

Fece luce anche intorno alla casa, quasi per accertarsi che nessuno si nascondesse nel giardino. Le macchie di fango tra l’erba incolta, colpite dal fascio della piccola lampadina, sembravano quasi brillare e muoversi. Pensò che somigliavano a  fosse scavate per nasconderci  cadaveri.

Mafioso?  Spacciatore? Assassino? E se sua moglie avesse ragione? Decise che doveva affrettarsi, entrare, afferrare  la valigetta e riprendere il suo viaggio. Aveva perso anche troppo tempo.

La valigetta. Cosa poteva contenere quella valigetta? E come mai Giulio era così ansioso di riaverla tanto da approfittare di lui?

Certo, se fosse stata particolarmente importante, sarebbe tornato Giulio stesso a riprenderla. Se fosse stata compromettente non avrebbe certo dato a lui un simile incarico. O forse no. Certo, Giulio sapeva che lui non l’avrebbe aperta e che avrebbe portato a termine il suo semplice incarico.

Droga? E se la valigetta avesse contenuto droga? Poteva essere che quella casa fosse un punto di scambio della malavita. C’era chi lasciava lì la droga e chi la ritirava. E lui era un uomo insospettabile, certamente non controllato dalla Polizia. E del resto, anche si fosse trattato di droga, lui non l’avrebbe mai saputo.

Si era intanto avvicinato guardingo alla porta,  sapeva che non c’era nessuno, ma non si decideva ad entrare.

E se quella fosse una trappola? L’idea lo colpì con una stretta al  cuore. Sentì la paura salirgli dal petto alla testa e un formicolio in tutto il corpo. Per un attimo le sue ginocchia cedettero. Si sforzò di ragionare. Una trappola, perché?

Giulio avrebbe dovuto comunque  raccontare diverse cose su quella sua sosta nella casa di Pineta Marittima, certamente sarebbe stato un valido sospetto.

No, non era così. Nessuno oltre Giulio sapeva che lui si sarebbe fermato lì.

Ora maledì il fatto di aver nascosto alla moglie  quella sua breve deviazione per raggiungere la casa di Giulio. Non le aveva detto nulla, per evitate inutili discussioni e soprattutto per non doverle giustificare nulla a proposito di quella amicizia su cui lei aveva sempre da ridire.

Nessun altro, quindi, sapeva che lui si sarebbe fermato in quella casa.

Una trappola? Perché una trappola?

Ma in questo caso non avrebbe neanche trovato la valigetta. La valigetta serviva solo come esca. Non ce n’era bisogno, Giulio se l’era inventata.

Lui sarebbe entrato, l’avrebbe inutilmente cercata, e qualcuno sarebbe sbucato dall’ombra e lo avrebbe ammazzato.

Come? Con un colpo di pistola, con una botta in testa, con una pugnalata? Poi avrebbe sotterrato il suo corpo sotto il fango in giardino, avrebbe fatto scomparire la sua auto e nessuno mai avrebbe saputo che fine avesse fatto.

Non è così che la Mafia fa scomparire i suoi nemici?

Ma lui non era un nemico.

Allungò la mano verso la porta con l’intenzione di aprirla, dare almeno un’occhiata all’interno con l’aiuto della sua torcia.

Lui non era un nemico. Cioè, lui non considerava Giulio un nemico.

Ma Giulio poteva considerarlo un ingombrante avversario.

Lui che vinceva sempre e, involontariamente, lo umiliava davanti a tutti. Giulio il boss,  il mafioso,  lo spacciatore?

Giulio voleva liberarsi di lui, ora ne era quasi certo. Avrebbe avuto una conferma entrando in quella casa e scoprendo che non c’era nessuna valigetta. Ma se fosse entrato…

Fu allora che sentì rumore di passi. Il cuore gli saltò in petto e poiché il rumore giungeva dai pressi del cancello dove tutto si era fatto buio perché nel frattempo era davvero scesa una notte nera e umida, quasi istintivamente s’infilò nella casa chiudendosi la porta alle spalle.

Neanche provò a cercare l’interruttore della luce, ormai si sentiva braccato.

Puntò la torcia su quello che immaginava il centro della stanza e dove doveva esserci un tavolo. Lo illuminò sperando che si materializzasse la valigetta che Giulio aveva detto di aver lasciato proprio lì. “La trovi sul tavolo, subito appena entrato. Ricordati di richiudere bene la porta quando te ne vai”, gli aveva detto.

Una raccomandazione inutile, una di quelle frasi che si dicono proprio perché sono scontate e il non dirle potrebbe  far sorgere sospetti e creare un allarme…

La valigetta non c’era.

Sentì la ghiaia scricchiolare sotto le scarpe dello sconosciuto, l’uomo che aveva l’incarico di farlo fuori.

Un sicario da quattro soldi, Giulio non doveva avere alcun problema a trovarne uno. Possibile che tutti nel quartiere sapessero e solo lui non si fosse accorto di nulla?

Perfino sua moglie, conoscendolo appena, lo aveva messo in guardia. Le era bastato quel Capodanno per capire chi fosse Giulio.

Continuò a frugare col fascio di luce della torcia nella stanza buia per orientarsi e cercare un’altra uscita mentre continuava a tenere l’orecchio teso verso l’esterno. Sentiva i passi dell’uomo intorno alla casa e si accorse di stringere ancora in mano la    chiave che aveva tolto dalla serratura entrando. Silenziosamente chiuse dall’interno e, appoggiato con le spalle al muro, respirò cercando di riprendere il controllo di sé.

Doveva difendersi. Ora sapeva, ora aveva capito.

Era caduto nella trappola ma poteva uscirne. Fece luce intorno a sé nervosamente alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo. Non era mai stato un tipo violento o manesco, odiava far male e perfino al suo cane non aveva mai dato un calcio.

Ma qui si trattava della sua vita e non poteva certo lasciare che lo aggredissero senza reagire.

Vide finalmente, vicino al muro di quella che doveva essere la cucina, alcuni attrezzi da giardino appoggiati alla parete disordinatamente. C’era un rastrello, una zappetta, una roncola. No, la roncola no. Poteva anche pensare di dare una bastonata e fuggire, ma la sola idea di usare un’arma da taglio lo faceva rabbrividire.

Aveva un senso di nausea, ebbe paura di dover vomitare. 

Cercando di non far rumore, prese la zappa. Era nuova, con il manico di legno liscio e chiaro  e il ferro laccato di blu. Uno di quegli attrezzi che si comprano nei magazzini di bricolage. Ma era pesante e il manico non si sarebbe rotto. Ne aveva una simile anche lui. L’avrebbe usata dalla parte del manico. L’immagine della punta di ferro che entrava nel cranio dell’uomo gli fece venire un conato di vomito.

La prese dal fondo, nel punto dove la lama era incastrata nel legno e provò a fenderla nell’aria.

Ora era pronto.

Si avvicinò alla porta e girò la chiave. Aspettò. Nessun rumore. Aprì un poco la porta e finalmente lo vide. Un’ ombra  all’angolo  della casa, alla sua destra. Lo vide di spalle, non guardava dalla sua parte, ma verso il giardino, proprio dov’erano le macchie fangose.

Allora, quasi con disperazione, aprì la porta di scatto e si lanciò verso di lui facendo in tempo a colpirlo alla testa con tutte le sue forze prima che quello potesse rendersi conto di cosa stesse accadendo.

Piombò a terra come un sacco e lui, preso da un furore incontrollabile, colpì e colpì ancora.

Si fermò accorgendosi che l’uomo gemeva e che il sangue gli colava dalla testa. La coppola che portava era caduta poco lontano e lui poteva immaginare  il  cranio  completamente calvo, ridotto ad un ammasso sanguinolento. Lo aveva colpito anche al collo, ne era certo. Aveva sentito scricchiolare ossa, aveva sentito quel corpo cedere sotto i suoi colpi.

Restò per un attimo inebetito con la zappa ancora rivolta al contrario, guardando il corpo dell’uomo sdraiato in terra in modo scomposto, con parte del viso premuto contro il terreno, la bocca semiaperta, gli occhi chiusi, un braccio nascosto sotto il torace. Respirava ancora? No, aveva smesso di respirare.

A  questo ora pensava chiuso nella cella del carcere del capoluogo, dopo l’interrogatorio del magistrato al quale aveva raccontato tutto più di una volta.

Il verbale redatto dai Carabinieri lo aveva firmato senza neanche rileggerlo, nella fretta di chiudere quella storia, tornare a casa e alla vita di sempre. Non aveva detto nulla di Giulio. Voleva che lui sapesse che non era riuscito a fregarlo, proprio come faceva con il biliardo. Giulio gli aveva teso una trappola e lui non c’era cascato. Aveva semplicemente spiegato che aveva agito per legittima difesa, che quell’uomo attentava alla sua vita e per questo lo aveva colpito.  

Si sdraiò sul lettino e decise che doveva dormire un po’. Domattina lo avrebbero rilasciato, dopo aver sicuramente scoperto che l’uomo che aveva colpito era un picciotto, di quelli con la fedina penale senza più uno spazio libero dove trascrivere gli ultimi crimini. Forse in tasca aveva anche una pistola.

Non sapeva che nel frattempo il maresciallo dei Carabinieri aveva identificato il morto: si trattava di un anziano manovale che s’industriava con lavoretti di vario genere e al quale Giulio aveva affidato la cura del giardino del suo villino di Pineta Marittima. Abitava poco lontano, la moglie l’aveva visto uscire per controllare chi fosse la persona che aveva parcheggiato l’auto davanti al cancello ed era entrata nel giardino.

Era stata ritrovata anche la valigetta. Era sul tavolo della cucina. Giulio, arrivato dopo la chiamata d’urgenza dei Carabinieri, trasecolò di fronte ai particolari di quel delitto senza motivo.

Lui davvero non c’entrava nulla. Sì, aveva il porto d’armi, ma la pistola la portava solo per difesa visto che si occupava da anni di recupero crediti. Un lavoro antipatico, che non gli piaceva, di cui non amava parlare,  ma che gli dava da vivere bene.  Confermò di aver consegnato all’amico le chiavi del villino con il semplice incarico di ritirare la valigetta. Sua moglie la voleva, gli rompeva l’anima. Lì dentro c’erano alcune riviste di moda conservate durante le vacanze. Siccome a tempo perso le piaceva cucirsi i vestiti da sé, voleva copiare i modelli per prepararsi  un nuovo guardaroba adatto alla prossima estate da trascorrere a Pineta Marittima.

 

 

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